mercoledì 29 dicembre 2010

Come far diventare malate le persone sane = Medicalizzazione della società

Il problema serio non sono le pandemie inventate (Antrace, Sars, Aviaria, Suina, ecc.) dall’establishment medico-scientifico, ma i loro “rimedi”: i farmaci-vaccini-veleni.
Non a caso la nostra è un’epoca contrassegnata dal “Disease Mongering”, (“mercificazione della malattia”, "creazione della malattia"), cioè da quella criminale operazione di Marketing spietato, finalizzata alla creazione vera e propria di malattie (vedi ipercolesterolemia, osteoporosi, malattie epidemiche, pandemie, ecc.) e alla medicalizzazione di aspetti normalissimi della vita (gravidanza, parto, menopausa, vecchiaia, ecc.) con il duplice obiettivo di spacciare e vendere farmaci da una parte e avere il controllo delle persone dall’altro.
Una persona ammalata (anche se oggettivamente è sana) NON è una persona libera. Una persona non libera è facilmente manipolabile…

Come avviene questa “Medicalizzazione della società”? 
Il 25 giugno 2005 lo B.J.M. “British Medical Journal” (il giornale della casta dei camici bianchi britannici) lancia l’allarme della «eccessiva medicalizzazione e della continua riduzione dei valori di normalità della pressione arteriosa e del colesterolo».
Cosa significa questo allarme?
Significa che le lobbies del farmaco con il connubio delle istituzioni sanitarie internazionali continuano ad abbassare i valori di “normalità” (pressione arteriosa, colesterolo, trigliceridi, glicemia, densità ossea, ecc.) da una parte, e aumentare gli “Screening di massa” dall’altra, rendendo “malate” milioni di persone, oggettivamente sane! Queste persone “sane”, con la compiacenza/ignoranza dei medici, saranno “curate” con droghe e/o veleni, intossicandole e facendole diventare malate per davvero.

Tecnicamente avviene in 3 passaggi:
1)   "PIANO QUANTITATIVO": ABBASSANDO LE SOGLIE
Ecco qualche esempio:
Trigliceridi:
- Valore “normale” a giugno 2003: 200mg/dL (2,3 mmol/L)
- Nuovo valore “normale” (luglio 2003): 150 mg/dL (1,7 mmol/L)
Significa che a fine giugno 2003 coloro che avevano i trigliceridi da 150 mg/dL a 200 mg/dL erano sani, e dal primo luglio malati!
Colesterolo:
- Trattamento se LDL > 115 mg/dL (3 mmol/L) a giugno 2003
- Nuovo parametro se LDL > 100 mg/dL (2,6 mmol/L) a luglio 2003
Significa che a fine giugno 2003 coloro che avevano il colesterolo LDL da 100 mg/dL a 115 mg/dL erano sani, e dal primo luglio invece malati!
Stiamo parlando di decine di milioni di persone!!!
Diabete:
- Valore “normale” se Glucosio < 140 mg/dL (fino al 2000)
- Nuovo parametro se Glucosio <  126 mg/dL (dopo il 2000)
Significa che nell’anno 2000, coloro che avevano il livello di Glucosio da 126 mg/dL a 140 mg/dL erano sani, mentre da capodanno malati!
Lo stesso dicasi per i valori della pressione arteriosa che da una normalità < 160/90 mmHg è attualmente stata portata a < 130/80 mmHg. Oggi siamo praticamente tutti "ipertesi".
2)   “PIANO TEMPORALE”: DIAGNOSI PRECOCE

Con gli Screening di massa si invitano, mediante la paura e il terrorismo psicologico, persone oggettivamente sane a cercare qualche malattia che nessuno vorrebbe avere.
Un esempio per tutti: la mammografia che i medici all’unisono consigliano e spesso raccomandano di fare alle donne sopra una certa età, serve oppure no?
Ecco cosa dice la conclusione dello studio dell’ufficialissimo Cochrane Collaboration e pubblicato nel “Cochrane Systematic Review” nel 2006.
Per ogni 2000 donne partecipanti allo screening, 1 avrà, dopo 10 anni, la vita prolungata (1 decesso per tumore al seno evitato rispetto a 2000 donne che non hanno fatto la mammografia).  10 saranno trattate per un tumore al seno in modo non necessario (overtreatment).
Quindi: “0,5 decessi evitati ogni 1000 donne che fanno la mammografia per 10 anni, rispetto a 1000 donne che non si sottopongono allo screening mammografico”. Il che equivale a dire: "Statisticamente non rilevante ed economicamente inutilmente oneroso."
Senza contare i devastanti effetti psicologici dei “falsi positivi” per coloro che eseguono la mammografia: l’esame rivela qualcosa (nodulo, tumore, cancro, ecc.) che in realtà NON c’è. Su 1000 donne ben 242 avranno appunto una “sospetta diagnosi di cancro al seno non confermate dopo ulteriori esami”. (Barrat et al, British Medical Journal 2005). 
Quindi i “falsi positivi” si aggirano intorno al 24%. Quante di queste donne saranno operate inutilmente? Quante di queste donne, a causa dello "stress da diagnosi", potrà innescare meccanismi psico-fisici ("effetto nocebo") molto pericolosi, dando origine a patologie vere e proprie? ....

3) “PIANO QUALITATIVO”: NUOVE MALATTIE
In questo caso gli esempi sono così numerosi che per problemi di spazio non è possibile elencarli: osteoporosi, sindrome premestruale, colon irritabile, ecc.

Liberamente tratto da: www.disinformazione.it




lunedì 20 dicembre 2010

Prima mano bionica mossa da nervi del paziente

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/scienza/2009/12/01/visualizza_new.html_1623008194.html

 Funziona l'arto biomeccanico, tecnologia italiana

02 dicembre, 20:49

La mano bionica

ROMA - La prima mano artificiale controllata dal cervello umano ha aperto la porta del futuro. Saranno sufficienti due o tre anni per avere una mano molto più piccola e leggera di quella attuale e molto più versatile, e forse in un periodo altrettanto breve si uscirà dalla fase sperimentare per arrivare a cyberprotesi indossabili e permanenti. E' lo scenario presentato oggi a Roma da università Campus Biomedico e Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, responsabili della prima sperimentazione al mondo nella quale un paziente che aveva perso la mano sinistra in un incidente stradale ha controllato con il suo cervello il movimento di una mano in acciaio, alluminio e titanio pesante due chilogrammi. Il collegamento fra mano artificiale e sistema nervoso erano quattro elettrodi, ognuno molto più sottile di un capello, innestati in due nervi del suo braccio sinistro.
- SISTEMA EFFICIENTE: l'intervento è stato condotto nel novembre 2008, il mese successivo è stato dedicato ai test, dopodiché si è lavorato per 11 mesi all'analisi dei dati, ha detto il direttore scientifico del Centro ricerche del Campus Biomedico, Paolo Maria Rossini. "Adesso sappiamo di avere un sistema che sa classificare le caratteristiche di tre tipi di movimento con un'efficienza vicina al 100%".
- COME NELLA FORMULA UNO: "la ricerca è nata tanti anni fa, con i primi studi sull'interfaccia uomo-macchina condotti nel 1984. Da allora il progresso è stato continuo e, come nelle auto della Formula Uno, ogni settimana abbiamo aggiunto parti nuove", ha detto Paolo Dario, della Scuola Superiore Sant'Anna e padre del progetto insieme a Maria Chiara Carrozza.
- SMART HAND: la mano bionica appena sperimentata nell'ambito del progetto LifeHand ha già un successore, SmartHand, che pesa 600 grammi. L'ideale, ha osservato Dario, è arrivare ad una mano del perso di 400-500 grammi. "Non riusciamo a far correre la macchina in Formula Uno, ma ne prepariamo le potenzialità", ha detto Silvestro Micera, della Scuola Sant'Anna.
- UN PAZIENTE STRAORDINARIO: Pierpaolo Petruzziello, il paziente brasiliano di origine italiana che ha perso la mano sinistra in un incidente stradale, è stato selezionato fra 30 volontari. Adesso è ora di cercare nuovi candidati per i prossimi passi: si che la selezione sarà lunga e difficile.
- GLI ELETTRODI: sono stati disinseriti dai due nervi del paziente dopo un mese, per misura precauzionale. "Ad una prima analisi sembrano in ottime condizioni e ancora efficienti", ha osservato Klaus Peter Hoffmann, dell'azienda tedesca Ibmt che li ha messi a punto.
- IL FUTURO: "nuovi interventi ci saranno solo quando avremo una tecnologia che ci permetta di fare passi in avanti", ha detto Rossini. Bisognerà avere un'interfaccia potente, elettrodi permanenti, una miniaturizzazione che permetta di realizzare una mano 'portatile' e algoritmi racchiusi in un microchip impiantabile. Per Maria Chiara Carrozza "i risultati incoraggianti ci permettono di guardare allo sviluppo della ricerca sulle protesi di mano con la necessaria prudenza, ma con la giustificata fiducia suffragata da evidenze scientifiche". Quello annunciato oggi, ha aggiunto, è "un traguardo positivo" in generale "per la ricerca italiana, che ha dimostrato di saper fare squadra e di saper supportare prestigiosi partner internazionali".

giovedì 16 dicembre 2010

Giocare all'aperto può proteggere i bimbi da miopia



NEW YORK. I bambini che regolarmente passano tempo all'aperto hanno meno probabilità dei coetanei che preferiscono stare al chiuso di diventare miopi, secondo i ricercatori.
In diversi studi pubblicati dalla rivista Optometry and Vision Science, gli scienziati mostrano che i bambini che trascorrono piu' tempo all'aperto durante il giorno tendono ad avere una vista migliore da lontano rispetto a coloro che scelgono le attività al chiuso. I motivi non sono chiari, ma il fenomeno non sembra dipendere dai livelli di attività fisica; piuttosto, l'esposizione alla luce solare potrebbe giocare un ruolo.
Inoltre, stare all'aperto spesso costringe i bambini a concentrarsi sugli oggetti in lontananza e studi condotti sugli animali suggeriscono che questo influisce sullo sviluppo dell'occhio aiutando a prevenire la miopia.
Dall'altro lato, i nuovi studi non hanno trovato prove che dimostrino in maniera inequivocabile che lavorare fissando lo sguardo sempre su oggetti vicini - per esempio leggendo o usando un computer - aumenti il rischio di miopia dei bambini.
In una delle ricerche, i Dr. Jane Gwiazda e Li Deng del New England College of Optometry di Boston hanno sottoposto a un questionario i genitori di 191 bambini di 13 anni e hanno misurato la vista dei ragazzi ogni anno.
Nel complesso i ricercatori hanno scoperto che i bambini che hanno sviluppato la miopia passavano in media 8 ore all'aperto a settimana, rispetto alle 13 ore dei ragazzi non miopi. I bambini miopi tendevano anche a guardare più televisione, mentre non è stata trovata una correlazione col tempo trascorso leggendo, studiando o usando il computer. In altri due studi - uno australiano, l'altro di Singapore - i ricercatori hanno trovato connessioni simili tra il tempo trascorso all'aperto e un minore rischio di miopia.

09/02/2009 14.17

giovedì 9 dicembre 2010

Dieta mediterranea spegne depressione, studio spagnolo

Roma, 6 ott. (Adnkronos Salute) - Pasta, verdure, pesce, un po' di vino, tanta frutta e olio extravergine d'oliva: ecco la ricetta per battere la depressione a tavola. A promuovere la dieta mediterranea è un team di ricercatori spagnoli dell'Università di Las Palmas (Canarie) e dell'Università di Navarra a Pamplona, autori di uno studio pubblicato su 'Jama'. Gli scienziati diretti da Miguel Martinez-Gonzalez dell'Università di Navarra hanno scoperto che i fedeli della dieta mediterranea sono il 30% meno vulnerabili alla depressione rispetto agli altri. Per scoprirlo gli esperti hanno studiato 10.094 persone sane per oltre quattro anni, sottoponendole a un questionario sulle abitudini alimentari e monitorandole nel corso della ricerca. Ebbene, i ricercatori hanno visto che a seguire con più fedeltà il regime alimentare di tipo mediterraneo erano per lo più gli uomini, ex fumatori, sposati e non più giovanissimi: questi si sono rivelati anche più attivi degli altri. Nel corso dello studio sono stati diagnosticati 480 nuovi casi di depressione, 156 nei maschi e 324 nelle femmine. Ma i fedeli della dieta mediterranea hanno mostrato un rischio di ammalarsi appunto inferiore del 30% rispetto agli altri. In barba a variabili come numeri dei figli, stile di vita o tratti caratteriali come tendenza alla competitività e all'ansia. Secondo Martinez-Gonzales i risultati vanno confermati da ricerche più vaste, ma la correlazione inversa tra menù mediterraneo e depressione "è forte". Anche se ancora il meccanismo protettivo di questo regime alimentare, già rivelatosi benefico per cuore e vasi, deve essere svelato.

lunedì 6 dicembre 2010

L'adesione alla dieta influisce sulla salute?

La dieta è quella mediterranea, della quale gli italiani dovrebbero essere maestri, e la domanda nasce da un gruppo di ricercatori dell'Università di Firenze: Francesco Sofi, Francesca Cesari, Rosanna Abbate, Gian Franco Gensini, Alessandro Casini, specializzati in nutrizione clinica e medicina interna. Il team di esperti fiorentini ha effettuato una metanalisi di 12 studi di coorte, prospettici, per un totale di 1.574.299 di partecipanti, che avevano indagato la relazione tra adesione alla dieta mediterranea, mortalità e incidenza di patologie croniche in prevenzione primaria. E la risposta è affermativa: chi segue in maniera più rigorosa il regime dietetico vive meglio e più a lungo. "Ebbene, sembra proprio che una regolare adesione ai dettami della dieta mediterranea, ricca di olio d'oliva, carboidrati, frutta, verdura e pesce e con un moderato consumo di vino rosso ai pasti, protegga contro una serie di malattie croniche, dalle cardiopatie ai tumori, ma anche da mali tipici della vecchiaia come Parkinson e Alzheimer", spiega Sofi.

BMJ 2008; 337: a1344

mercoledì 1 dicembre 2010

AIDS - Luoghi comuni e Ricerca


A volte, in tutta buona fede, si dà voce a campagne in sostegno di malati affetti da varie malattie, fra cui il cancro, l'AIDS, la sclerosi a placche, ecc., senza sapere che spesso dietro a queste malattie esistono dei retroscena inquietanti, che parlano di interessi personali ed economici da parte di chi diffonde notizie che colpiscono l'emotività (la paura, il panico!) della gente comune.


LA TRUFFA DELL’AIDS

“HIV” È IL NOME DI UN VERO (ANCHE SE INNOCUO) VIRUS E L’AIDS È UNA VERA SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA. LA TRUFFA CONSISTE NEL FATTO CHE NON ESISTE ALCUNA CORRELAZIONE SCIENTIFICAMENTE PROVATA TRA HIV E AIDS, MENTRE UNIVERSALMENTE VIENE FATTO CREDERE IL CONTRARIO.

Ci sono già da tempo alcuni libri che parlano di questo argomento, ma desidero portare all’attenzione di tutte le persone che amano la libertà e la verità dell’informazione un articolo emblematico del professor Kary Mullis, PREMIO NOBEL PER LA CHIMICA NEL 1993.

Kary Mullis è diventato una leggenda per la scoperta della PRC (Polymerase Chain    Reaction) una tecnica che ha rivoluzionato il mondo della chimica e della genetica.
L’articolo di seguito riportato è tratto dal   libro di Kary Mullis, Dancing Naked in the Mind Field, trad. ital. Ballando Nudi nel Campo della Mente, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pagg. 180-192. Per una volta, per una buona causa, in barba al copyright, DIFFONDETE QUESTE PAGINE IL PIÙ POSSIBILE. ANCHE ALTRI HANNO SETE DI VERITÀ!
Meglio ancora… invitate le persone a   comperarsi il libro di Mullis! C.D.

IL CASO NON È CHIUSO di Kary Mullis

      Quando nel 1984 sentii dire per la prima volta che il francese Luc Montagnier, dell’Istituto Pasteur, e Robert Gallo, dell’America’s National Institutes of Health, avevano scoperto indipendentemente l’uno dall’altro che il retrovirus HIV - Human Immunodeficiency Virus - era la causa dell’AIDS, accettai il dato come una qualsiasi evidenza scientifica.
        Il problema non riguardava strettamente il mio settore, la biochimica, e d’altronde loro erano esperti di retrovirus.
        Quattro anni più tardi lavoravo come consulente con gli Specialty Labs di Santa Monica: stavamo cercando il modo di utilizzare la PCR per individuare i retrovirus nelle migliaia di donazioni di sangue che la Croce Rossa riceveva ogni giorno. Stavo scrivendo un rapporto sull’andamento dei lavori, destinato allo sponsor del progetto, e cominciai affermando che «l’HIV è la probabile causa dell’AIDS». Chiesi a un virologo dello Specialty dove avrei potuto trovare elementi che confermassero il fatto che l’HIV era la causa dell’AIDS. «Non ne hai bisogno», mi fu risposto. «È una cosa che sanno tutti.» «Mi piacerebbe citare qualche dato»: mi sentivo ridicolo a non conoscere la fonte di una scoperta così importante. Sembrava che tutti gli altri la conoscessero. «Perché non citi il rapporto del CDC?» mi suggerì, mettendomi in mano una copia del rapporto periodico sulla morbilità e la mortalità del Center for Disease Control. Lo lessi. Non si trattava di un articolo scientifico. Si limitava ad affermare che era stato identificato un organismo, ma non spiegava come. Invitava i medici a informare il Centro ogni qual volta si trovassero di fronte a pazienti che presentavano determinati sintomi, e a testarli per individuare la presenza di anticorpi per questo organismo. Il rapporto non faceva riferimento alla ricerca originale, ma questo non mi sorprese. Era destinato ai medici che non avevano bisogno di conoscere la fonte delle informazioni. Dal loro punto di vista, se il CDC ne era convinto, doveva esistere, da qualche  parte, la prova che era l’HIV a provocare l’AIDS.
        Di solito si considera una prova adeguata dal punto di vista scientifico un articolo pubblicato su una rivista scientifica attendibile. Al giorno d’oggi le riviste sono stampate su carta patinata, piene di fotografie, di articoli scritti da giornalisti professionisti, e ci sono anche foto di ragazze che reclamizzano prodotti che potrebbero essere utili in laboratorio. A fare pubblicità sono aziende che offrono prodotti utili agli scienziati, o che producono farmaci che i medici dovranno prescrivere. Tutte le riviste importanti contengono pubblicità. E di conseguenza, tutte hanno qualche rapporto con le aziende.
        Gli scienziati propongono gli articoli per descrivere le proprie ricerche. Per la carriera di uno scienziato è              fondamentale scrivere articoli che descrivano il proprio lavoro e riuscire a farli uscire: non avere articoli pubblicati sulle riviste più quotate è una perdita di prestigio, tuttavia gli articoli non possono essere proposti fino a quando gli esperimenti che ne supportano le teorie non siano conclusi e valutati. Le riviste più importanti chiedono addirittura di riportare, direttamente o attraverso citazioni, tutti i dettagli degli esperimenti, in modo che altri ricercatori possano ripeterli esattamente e vedere se ottengono gli stessi risultati.
      Se le cose vanno diversamente, questo viene reso pubblico, e il conflitto deve essere risolto in modo che, quando la ricerca verrà ripresa, si sappia con certezza da che punto si riparte. Le più qualificate tra le principali riviste hanno un   sistema di revisione. Quando un articolo viene proposto per la pubblicazione, il direttore lo spedisce in copia ad alcuni colleghi dell’autore perché lo verifichino: i cosiddetti revisori. I direttori sono pagati per il loro lavoro, i revisori no, ma è pur sempre un compito che conferisce loro potere, il che in genere basta a soddisfarli.
        Feci qualche ricerca sul computer. Ne MontagnierGallo né altri avevano pubblicato articoli descrivendo esperimenti che portavano alla conclusione che probabilmente l’HIV provocava l’AIDS. Lessi gli articoli pubblicati su «Science», che li avevano resi famosi come «i medici dell’AIDS», ma tutto quello che c’era scritto era che avevano trovato in alcuni pazienti affetti da AIDS tracce di una precedente infezione da parte di un agente patogeno che probabilmente era HIV. Avevano scoperto degli anticorpi. Ma gli anticorpi contro determinati virus erano sempre stati considerati segno di malattie precedenti non di malattie in corso. Gli anticorpi indicavano che il virus era   stato sconfitto, e il paziente era salvo. Negli articoli non si diceva affatto che questo virus provocava una malattia, né risultava che tutte le persone che avevano anticorpi nel sangue fossero malate. E in effetti erano stati trovati anticorpi nell’organismo di individui sani.
        Se Montagnier e Gallo non erano riusciti a trovare questo genere di prove, perché i loro articoli erano stati pubblicati, e perché avevano discusso così duramente per attribuirsi il merito della loro scoperta?
        C’era stato un incidente internazionale quando Robert Gallo dell’NIH aveva dichiarato che un campione di HIV inviatogli da Luc Montagnier, dell’Istituto Pasteur di Parigi, non si era poi sviluppato nel suo laboratorio. Altri campioni raccolti da Gallo e dai suoi collaboratori da potenziali pazienti affetti da AIDS, invece, si erano sviluppati. Basandosi su questi campioni Gallo aveva brevettato un test per l’AIDS, e l’Istituto Pasteur l’aveva citato in giudizio. Alla fine il tribunale dette ragione al Pasteur, ma nel 1989 si era ancora in una situazione di stallo, e i due istituti si dividevano i  profitti.
        Esitavo a scrivere che «I’HIV è la probabile causa dell’AIDS», prima volevo delle prove, pubblicate, che lo confermassero. La mia affermazione era molto limitata: nella mia richiesta di fondi non volevo sostenere che il virus   fosse indubbiamente la causa dell’AIDS, stavo solo cercando di dire che era probabile che lo fosse, per motivi a noi noti.
      Decine di migliaia di scienziati e ricercatori stavano spendendo ogni anno miliardi di dollari per ricerche che si basavano su quest’idea. La ragione di tutto questo doveva pur essere scritta da qualche parte, altrimenti tutta questa gente non avrebbe permesso che le proprie ricerche si concentrassero su un’ipotesi cosi ristretta.
        All’epoca tenevo conferenze sulla PCR a un infinità di convegni. E c’era sempre gente che parlava dell’HIV. Chiesi loro su cosa si basasse la certezza che era questo virus a provocare l’AIDS. Tutti avevano una qualche risposta, a casa, in ufficio, o in un qualche cassetto. Tutti lo sapevano, e mi avrebbero mandato la documentazione appena rientrati. Ma non mi arrivò mai nulla: nessuno mi mandò mai una spiegazione di come l’HIV provocasse l’AIDS.
        Alla fine, ebbi l’opportunità di porre questa domanda a Montagnier, quando tenne una conferenza a San Diego in occasione dell’inaugurazione dell’UCSD AIDS Research Center, ancora oggi diretto dall’ex moglie di Robert Gallo, la dottoressa Flossie Wong-Staal. Sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrei posto questa domanda senza perdere la pazienza. La risposta di Montagnier fu un suggerimento: «Perché non cita il rapporto del CDC?» «L’ho letto», dissi, «ma non risponde realmente alla domanda se l’HIV sia la probabile causa dell’AIDS, vero?» Montagnier ne convenne: ero molto seccato. Se neanche lui sapeva la risposta, chi diavolo l’avrebbe potuta sapere?

        Una sera ero in macchina per recarmi da Berkeley a La Jolla, quando ascoltai, sulla National Public Radio un’intervista a Peter Duesberg, famoso virologo di Berkeley. Finalmente capii perché era tanto difficile trovare le prove che mettevano in rapporto l’HIV e l’AIDS: Duesberg affermava che prove del genere non esistevano. Nessuno aveva mai dimostrato che l’HIV causasse l’AIDS. L’intervista durava circa un ora e mi fermai per non perdermi niente.
        Avevo sentito parlare di Peter quando frequentavo la specializzazione a Berkeley. Mi era stato descritto come uno scienziato veramente in gamba, che era riuscito a mappare una particolare mutazione in un singolo nucleotide di quello che sarebbe stato successivamente definito un oncogene. Negli anni Sessanta, era una vera impresa. Peter andò avanti sviluppando la teoria secondo la quale gli oncogeni potrebbero essere introdotti nell’organismo umano da virus e provocare il cancro. L’idea ebbe successo, e diventò una seria base teorica della ricerca che venne finanziata con lo   sfortunato nome di «Guerra al cancro». Peter fu eletto “Scienziato Californiano dell’anno”. Ma invece di dormire sugli allori, li incendiò. Riuscì a trovare punti deboli alla sua stessa teoria, e annunciò ai suoi stupitissimi colleghi che stavano dandosi da fare per trovarne la dimostrazione sperimentale che era molto improbabile che ci riuscissero. Se volevano combattere il cancro, le loro ricerche avrebbero dovuto essere indirizzate in altra direzione. Ma loro, fosse perché erano più interessati a combattere la loro povertà piuttosto che il cancro, o semplicemente perché non riuscivano ad affrontare i propri errori, continuarono a lavorare per dieci anni, senza alcun risultato sull’ipotesi dell’oncogene virale. E non riuscirono a cogliere l’ironia della situazione: più aumentava la loro frustrazione, più se la prendevano con Duesberg per aver messo in discussione la propria teoria e le loro assurdità.
        La maggior parte di loro non aveva imparato molto di quello che io definisco scienza. Erano stati addestrati a ottenere finanziamenti governativi, assumere persone per fare ricerche e scrivere articoli che di solito si concludevano affermando che le ricerche dovevano essere ulteriormente approfondite, preferibilmente da loro, con denaro di qualcun altro.
       Uno di questi era Bob Gallo.
        Gallo era stato amico di Peter. I due avevano lavorato per lo stesso dipartimento del National Cancer Institute.
       Tra le migliaia di scienziati che si erano impegnati inutilmente per assegnare a un virus un ruolo determinante nello sviluppo del cancro, Bob era stato l’unico tanto zelante da affermare di esserci anche riuscito. Nessuno prestò alcuna attenzione alla cosa, perché aveva dimostrato solo una relazione sporadica e molto debole tra gli anticorpí contro un innocuo retrovirus definito HTLV 1 e un insolito tipo di tumore individuato principalmente su due delle isole meridionali del Giappone.
        Nonostante la sua mancanza di gloria come scienziato, Gallo era riuscito a scalare agevolmente le gerarchie, mentre Duesberg nonostante le sue capacita le aveva scese. Quando si cominciò a parlare di AIDS, fu a Gallo che si rivolse Margaret Heckler quando il presidente Reagan decise che ne aveva abbastanza di tutti quegli omosessuali che manifestavano davanti alla Casa Bianca. La Heckler era il ministro per l’Istruzione, la Sanità e il Welfare, e quindi il    capo supremo dell’NIH. Bob Gallo aveva un campione di virus che Montagnier aveva trovato in un linfonodo di un arredatore gay parigino malato di AIDS. Montagnier aveva spedito il campione a Gallo perché lo valutasse, e questi se ne era impossessato allo scopo di sfruttarlo per la propria carriera. Margaret convoco una conferenza stampa e presentò il dottor Robert Gallo, che si sfilò lentamente gli occhiali da sole e annuncio alla stampa mondiale: «Signori, abbiamo    trovato la causa dell’AIDS».
      Tutto qui.
      Gallo e la Heckler annunciarono che entro un paio di anni sarebbero stati disponibili un vaccino e una terapia. Eravamo nel 1984.
        Tutti gli ex cacciatori di virus del National Cancer Institute cambiarono le targhette sulla porta dei loro laboratori e diventarono esperti di AIDS. Reagan, tanto per cominciare, stanziò all’incirca un miliardo di dollari, e da un momento all’altro chiunque potesse rivendicare una specializzazione medico-scientifica di qualche genere, e si fosse trovato senza molto da fare fino a quel momento, trovò un impiego a tempo pieno. Che mantiene tutt’oggi.
        Il nome Human Immunodeficiency Virus fu creato da un comitato internazionale, nel tentativo di risolvere la disputa tra Gallo e Montagnier, che avevano dato al virus nomi diversi. Fu una prova di scarsa lungimiranza, e un errore che vanificò qualsiasi tentativo di indagare sulla relazione causale tra la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) e il virus (HIV) dell’immunodeficienza umana.
        Duesberg, intervenendo dalle retrovie, sottolineò saggiamente sugli Atti della National Academy of Science che non c’erano prove attendibili sul coinvolgimento del nuovo virus. Ma fu completamente ignorato, i suoi articoli furono rifiutati, e comitati composti da suoi colleghi cominciarono a mettere in dubbio che fosse necessario continuare a finanziare le sue ricerche. Alla fine, con quello che deve essere considerato un gesto di incredibile arroganza e disprezzo nei confronti della correttezza scientifica, un comitato di cui faceva parte Flossie Wong-Staal, che ormai era schierata apertamente contro Duesberg, decise di non rinnovare a Peter il Distinguished Investigator Award, escludendolo così dai fondi destinati alla ricerca. In questo modo, Duesberg era meno pericoloso per il crescente establishment AIDS: non sarebbe più stato invitato a intervenire a convegni organizzati dai suoi ex colleghi.
        Conviviamo con un numero incommensurabile di retrovirus. Sono dappertutto, e probabilmente sono vecchi almeno quanto la razza umana dato che fanno parte del nostro genoma. Ne riceviamo alcuni dalle nostre madri, sotto forma di nuovi virus, particelle virali infettive che migrano dalla madre al feto. Altri da entrambi i nostri genitori, insieme ai geni. Alcune delle sequenze del nostro genoma sono fatte di retrovirus. Il che significa che possiamo produrre, e in alcuni casi produciamo effettivamente, le nostre particelle retrovirali. Alcune di loro possono somigliare all’HIV, ma nessuno ha dimostrato che abbiano mai ucciso qualcuno.
        Ci deve essere una ragione che giustifichi la loro esistenza: una porzione quantificabile del nostro genoma contiene sequenze retrovirali umane endogene. C’è chi sostiene che alcune porzioni di DNA sono inutili, ma ha torto. Se nei nostri geni c’è qualcosa, ci deve essere una ragione. Il nostro organismo non permette che si sviluppino elementi inutili. Ho cercato di inserire sequenze geniche irrilevanti in organismi semplicissimi come i batteri, ma se non hanno ragion d’essere gli organismi se ne liberano. E voglio sperare che il mio corpo, quando si tratta di DNA, sia intelligente almeno quanto un batterio.
        L’HIV non è saltato fuori all’improvviso dalla foresta pluviale o da Haiti. È semplicemente finito nelle mani di Bob Gallo, nel momento in cui lui aveva bisogno di una nuova carriera. Ma stava lì da sempre: nel momento in cui si smette di cercarlo solo per le strade delle grandi città, ci si accorge che l’HIV è sporadicamente distribuito ovunque.
        Se l’HIV fosse stato lì da sempre, e fosse trasmissibile da madre a figlio, non avrebbe senso cercare gli anticorpi nell’organismo della madre di chiunque risulti HIV-positivo, specialmente se l’individuo non mostra segni di malattia?
        Immaginatevi un ragazzo nel cuore degli Stati Uniti, il cui sogno è arruolarsi in aviazione dopo la laurea e fare il      pilota. Non ha mai usato droghe, e per tutto il liceo ha avuto la stessa fidanzatina, con la quale ha tutte le intenzioni di sposarsi. A insaputa sua, e di chiunque altro, ha anche degli anticorpi per l’HIV, che ha ereditato dalla madre, tuttora    viva, quando era nel suo ventre. È un ragazzo sano, e la cosa non gli ha mai creato alcun problema, ma quando l’aviazione lo sottopone al test di routine per l’HIV le sue speranze e i suoi sogni crollano. Non solo la sua richiesta di   arruolamento viene respinta ma sulla sua testa pesa anche una sentenza di morte.
        Il CDC ha definito l’AIDS come una tra più di trenta malattie connesse a un risultato positivo al test per individuare gli anticorpi per l’HIV. Ma queste stesse malattie non vengono definite AIDS, se non si individuano gli anticorpi. Se una donna HIV-positiva sviluppa un tumore all’utero, per esempio, la si considera malata di AIDS. Un HIV-positivo con la tubercolosi ha l’AIDS, mentre se risulta negativo al test ha solo la tubercolosi.
      Se vive in Kenya o in Colombia dove il test per l’HIV è troppo costoso, ci si limita a presumere che abbia gli anticorpi, e quindi l’AIDS. In questo modo può essere curato in una clinica dell’OMS, che in alcuni posti è l’unica forma di assistenza medica disponibile. È gratuita, dato che i Paesi che finanziano l’OMS hanno paura dell’AIDS. Se lo consideriamo come un’opportunità per diffondere l’assistenza medica nelle aree dove vive povera gente, l’AIDS è stato una fortuna. Non li avveleniamo con l’AZT come facciamo con i nostri concittadini, perché costerebbe    troppo. Forniamo loro le cure per una ferita da machete sul ginocchio sinistro, e la chiamiamo AIDS.
        Il CDC continua ad aggiungere nuove malattie alla definizione generale dell’AIDS: praticamente hanno manipolato le statistiche per far sì che la malattia appaia in continua diffusione. Nel 1993, per esempio, il CDC ha enormemente allargato la definizione di AIDS. Una scelta gradita alle autorità locali, che grazie al Ryan White Act (una legge approvata nel 1990 che garantisce assistenza ai malati di AIDS, N.d.T.) ricevono dallo Stato 2500 dollari all’anno per ogni caso di AIDS segnalato.
        Nel 1634 Galileo fu condannato a trascorrere gli ultimi otto anni della sua vita agli arresti domiciliari per avere    scritto che la terra non è il centro dell’universo ma, al contrario, ruota attorno al sole. Fu accusato di eresia, perché sosteneva che un dato scientifico non dovrebbe avere niente a che vedere con la fede. Tra qualche anno, il fatto che noi abbiamo accettato la teoria secondo la quale l’AIDS sarebbe causata dall’HIV sembrerà una sciocchezza, come a noi sembrano sciocche le autorità che hanno scomunicato Galileo.
        La scienza, così come è praticata oggi nel mondo, ha ben poco di scientifico. E ciò che la gente chiama «scienza», probabilmente, non e molto diverso da quello che veniva chiamato scienza nel 1634. A Galileo fu chiesto di ritrattare le sue convinzioni, altrimenti sarebbe stato scomunicato. E chi rifiuta di accettare i comandamenti imposti dall’establishment dell’AIDS si sente dire più o meno la stessa cosa: «Se non accetti il nostro punto di vista, sei fuori.»
        È una delusione vedere come tanti scienziati si siano rifiutati nel modo più assoluto di esaminare in modo obiettivo e spassionato i dati disponibili. Varie autorevoli riviste scientifiche hanno rifiutato di pubblicare una dichiarazione con cui il Gruppo per la Rivalutazione Scientifica dell’Ipotesi HIV/AIDS si limitava a chiedere «un’attenta verifica degli elementi disponibili a favore o contro questa ipotesi».
        Affrontai pubblicamente questo tema per la prima volta a San Diego, nel corso di un convegno dell’American Association for Clinical Chemists. Sapevo che mi sarei trovato tra amici, e dedicai all’AIDS una piccola parte di un    lungo intervento, non più di un quarto d’ora. Dissi come la mia incapacità di trovare una qualsiasi prova avesse stuzzicato la mia curiosità.
        Più ne sapevo, più diventavo esplicito. Non potevo rimanere in silenzio: ero uno scienziato responsabile, ed ero convinto che ci fossero persone che venivano uccise da farmaci inutili. Le risposte che ricevevo dai miei colleghi variavano da una blanda accettazione a un esplicito astio. Quando fui invitato a Toledo dalla European Federation of Clinical Investigation, per parlare della PCR, dissi loro che avrei preferito parlare dell’HIV e dell’AIDS. Non credo che, quando accettarono, avessero capito esattamente in che cosa si stavano cacciando. Ero arrivato a metà del mio intervento quando il presidente della società mi interruppe bruscamente, suggerendomi di rispondere alle domande del pubblico. Il suo atteggiamento mi sembrò molto sgarbato, e assolutamente inappropriato, ma, che diavolo! avrei risposto alle domande. Lui aprì il dibattito, e poi decise che avrebbe posto la prima domanda personalmente. Mi rendevo conto che mi stavo comportando da irresponsabile? Che la gente che mi sentiva parlare avrebbe potuto smettere di usare profilattici? Risposi che le statistiche, piuttosto attendibili, prodotte dal CDC mostravano che, almeno negli Stati Uniti, i casi di tutte le malattie veneree conosciute erano in aumento, il che dimostrava che la gente non usava i profilattici, mentre i casi di AIDS, attenendosi alla definizione originaria della malattia, erano in diminuzione. E quindi, no, non ritenevo di essere un irresponsabile. Il presidente decise che poteva bastare, e interruppe bruscamente l’incontro.
        Quando affronto questo argomento, la domanda che mi viene posta è sempre la stessa: «se non è l’HIV a provocare l’AIDS, allora che cos’è?» La risposta è che non so rispondere a questa domanda, più di quanto sappiano farlo Gallo o Montagnier. Il fatto che io sappia che non c’è alcuna prova che l’HIV provochi l’AIDS non fa di me un’autorità sulle cause reali della malattia.
        È indiscutibile che, se una persona ha contatti molto intimi con un gran numero di individui, il suo sistema immunitario è destinato a entrare in contatto con un gran numero di agenti infettivi. Se una persona ha trecento contatti sessuali all’anno - con persone che a loro volta hanno trecento contatti sessuali all’anno - questo significa che ha novantamila possibilità in più di contrarre un infezione rispetto a una persona che ha una relazione monogamica.
        Pensate al sistema immunitario come a un cammello: se lo caricate troppo, stramazza. Negli anni Settanta c’era un numero rilevante di uomini che si spostavano di frequente e avevano uno stile di vita promiscuo, condividendo fluidi corporei, droghe e una vita spericolata. È probabile che un omosessuale che viveva in una grande città fosse esposto praticamente a qualsiasi agente infettivo che avesse mai vissuto su un organismo umano. In effetti, se uno dovesse organizzare un piano per raccogliere tutti gli agenti infettivi esistenti sul pianeta, potrebbe costruire dei bagni turchi e invitare gente molto socievole a frequentarli. Il sistema immunitario reagirebbe, ma sarebbe stroncato dal numero degli avversari.
        Il problema scientifico si mescola con quello morale. ma quello che sto dicendo non ha niente a che vedere con la morale. Non parlo di «punizione divina» o di altre assurdità. Un segmento della nostra società stava sperimentando uno stile di vita, e le cose non sono andate come previsto. Si sono ammalati. Un altro segmento della nostra società cosi pluralista chiamiamoli medici/scienziati reduci della guerra perduta contro il cancro, o semplicemente sciacalli professionisti hanno scoperto che funzionava. Funzionava per loro. Stanno ancora pagandosi le loro BMW nuove con i nostri soldi.
               

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Anagrafe e Malattia

Anagrafe e Malattia Anagrafe. [dal gr. ἀναγραϕή «registro»]. – Registro della popolazione destinato, in ogni comune, a documentare lo...

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Nato a Castellana Grotte (BA) nel 1951 Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1979 presso l’Università degli Studi di Parma Dal 1984 esercita la Professione di Medico di Medicina Generale in Casamassima (BA). Nel 1985 si iscrive al Corso Biennale di Omeopatia indetto nella Città di Bari dalle Scuole di Medicina Omeopatica “Mattioli-Palmieri” di Firenze, conseguendone l’Attestato nel 1987. Dal 1997 è attivo nell’informazione sulla integrazione alimentare da fonti naturali (e non da preparazioni chimico-farmaceutiche), quale supporto indispensabile al miglioramento e mantenimento dello stato di salute psico-fisico dell’individuo. Nel 2001 si avvicina allo studio e alla pratica delle tecniche di guarigione naturali del Reiki, percorrendone l’intero iter formativo fino alla qualifica di Usui Reiki Master, di Karuna Reiki® Master, e completando la formazione nelle tecniche giapponesi originali dell’Usui Ryoho Gakkai presso la Scuola Free Reiki® di Padova. Il lavoro di ricerca continua acquisendo la conoscenza di nuove tecniche fra cui EFT, Coaching, ed altre in via di sviluppo, sempre con l'obiettivo di ripristinare lo stato di benessere nelle persone che lo richiedono.

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